La pandemia ha messo a nudo i problemi della digitalizzazione della giustizia penale, dal deposito degli atti per via telematica alle udienze da remoto

08/03/2021

Quando, il 9 marzo 2020, l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte annuncia restrizioni in tutta Italia per fermare l’esplosione di casi di coronavirus, anche la macchina della giustizia deve pensare a un piano B. La strada è una: digitalizzare. Se la giustizia civile, dopo una decina d’anni di attività del portale per il processo civile telematico (Pct), arriva all’appuntamento avendo già tolto le rotelle alla bicicletta, quella penale, invece, deve tuffarsi nella piscina dei grandi senza aver mai preso lezioni di nuoto.

È così che nasce il portale per il deposito degli atti penali (Pdp), che a tendere deve diventare, per il ministero della Giustizia, il canale principe per gli avvocati. Il decreto legge Ristori impone che memorie, documenti, richieste e istanze previsti dall’articolo 415-bis del codice di procedura penale (che regola l’avviso all’indagato di chiusura delle indagini) debbano passare solo e soltanto dal Pdp. Il 13 gennaio un nuovo decreto aggiunge alla lista denunce, querele, opposizioni all’archiviazione, nomine, revoche e rinunce del difensore. Tuttavia il portale disattende da subito le aspettative: malfunzionamenti e difetti di progettazione sono il pane quotidiano degli avvocati.

Il Pdp è solo un tassello nel puzzle che deve trasformare un pachiderma che si nutre di carta, come la giustizia penale, nel suo gemello digitale. Della rete di applicativi e programmi per smaterializzare faldoni e atti fanno parte anche il Sistema informativo di cognizione penale (Sicp), una stanza virtuale dove si possono visualizzare le carte, nato nel 2016, e il Tiapp, per gestire in modo integrato i documenti, dall’archivio alla notifica, entrambi utilizzati dal personale amministrativo delle cancellerie e delle segreterie.

Quel pasticciaccio del processo penale digitale

La pandemia ha messo a nudo i problemi della digitalizzazione della giustizia penale, dal deposito degli atti per via telematica alle udienze da remoto

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(foto: Getty Images)

Quando, il 9 marzo 2020, l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte annuncia restrizioni in tutta Italia per fermare l’esplosione di casi di coronavirus, anche la macchina della giustizia deve pensare a un piano B. La strada è una: digitalizzare. Se la giustizia civile, dopo una decina d’anni di attività del portale per il processo civile telematico (Pct), arriva all’appuntamento avendo già tolto le rotelle alla bicicletta, quella penale, invece, deve tuffarsi nella piscina dei grandi senza aver mai preso lezioni di nuoto.

È così che nasce il portale per il deposito degli atti penali (Pdp), che a tendere deve diventare, per il ministero della Giustizia, il canale principe per gli avvocati. Il decreto legge Ristori impone che memorie, documenti, richieste e istanze previsti dall’articolo 415-bis del codice di procedura penale (che regola l’avviso all’indagato di chiusura delle indagini) debbano passare solo e soltanto dal Pdp. Il 13 gennaio un nuovo decreto aggiunge alla lista denunce, querele, opposizioni all’archiviazione, nomine, revoche e rinunce del difensore. Tuttavia il portale disattende da subito le aspettative: malfunzionamenti e difetti di progettazione sono il pane quotidiano degli avvocati.

Il Pdp è solo un tassello nel puzzle che deve trasformare un pachiderma che si nutre di carta, come la giustizia penale, nel suo gemello digitale. Della rete di applicativi e programmi per smaterializzare faldoni e atti fanno parte anche il Sistema informativo di cognizione penale (Sicp), una stanza virtuale dove si possono visualizzare le carte, nato nel 2016, e il Tiapp, per gestire in modo integrato i documenti, dall’archivio alla notifica, entrambi utilizzati dal personale amministrativo delle cancellerie e delle segreterie.

Il portale per il deposito atti penali
Il portale per il deposito atti penali

Cronologia di un progetto

Fino al 2020 l’unico strumento digitale inserito nelle procedure penali è la posta elettronica certificata. Così, quando la pandemia chiude l’Italia in casa, il governo deve approntare una soluzione d’emergenza per sfoltire le file diuturne di avvocati che, armati di mascherina, attendono ore per depositare i fascicoli. La svolta arriva con una serie di decreti che, dalla primavera, stabiliscono la possibilità di depositare gli atti per via telematica e affidano al ministero della Giustizia il compito di sviluppare un portale per raccoglierli.

Il Pdp fa la sua comparsa a maggio, “ma fino a ottobre è rimasto nell’ombra”, spiega Andrea Soliani, presidente della Camera penale di Milano. Nella prima fase solo alcune procure, dicono dal ministero, lo possono usare: Napoli, Milano, Brescia, Perugia e Catania. Il decreto legge 137 del 28 ottobre scorso lo rende obbligatorio per tutti almeno fino alla fine dell’emergenza sanitaria (ad aprile), stabilendo in quali fasi gli atti devono passare da Pdp e in quali via pec.

Costretti a usare il portale, i legali devono fare i conti con falle e problemi di progettazione. “Ma se non va a buon fine il deposito, si rischia che l’assistito possa finire in carcere – incalza Soliani -. Questo portale ha difetti di funzionamento che compromettono l’esercizio del diritto di difesa. Il deposito degli atti è una fase essenziale”.

E ricorrere alla pec, in alternativa, non è una strada percorribile. A sbarrarla, pur a fronte dei cahiers de doléances dei penalisti, ci pensano una sentenza della Cassazione e un parere del tribunale del Riesame di Milano: se l’atto arriva via posta elettronica certificata ma per legge deve passare dal portale, viene giudicato inammissibile“Hanno dato un’interpretazione straordinariamente rigorosa, da noi giudicata non condivisibile”, commenta Soliani. Mentre è “molto grave che si sia passati dal decreto d’urgenza alla sanzione di inammissibilità dell’atto senza prevedere una fase intermedia di implementazione”, secondo Giuseppe Campanelli, avvocato del foro di Roma e membro del consiglio direttivo del circolo dei giuristi telematici.

Il portale per il deposito atti penali
Il portale per il deposito atti penali

Il cantiere del portale

A lavorare al Pdp è la Direzione generale sistemi informativi automatizzati (Dgsia). La digitalizzazione del processo penale è una delle partite più delicate in via Arenula. Basti pensare che, come scrive il ministero della Giustizia in risposta alle domande di Wired, l’appalto complessivo (che non riguarda solo il Pdp ma anche molti altri progetti) è “sottoposto a particolari misure di sicurezza” e il dicastero non entra nei dettagli del contratto. Durata cinque anni, esecutivo da luglio 2019, si articola in quattro lotti (uno per lo sviluppo e tre per la migrazione a livello locale) e, escluso l’hardware, si aggira sui 140 milioni di euro. I data center sono in Italia e gestiti dalla Dgsia.

A oggi, dati del ministero, il solo Pdp ha processato 54mila depositi, spesso composti da più file. Tuttavia, per Campanelli si tratta di “un sistema progettato da gente che sembra non sapere cosa sia un computer né cosa sia la pratica processuale”. Perché, prosegue il legale, “i problemi iniziano ancora prima dell’accesso, con la previsione dei nuovi cosiddetti ‘atti abilitanti’, che vincolano l’avvocato all’ottenimento di uno speciale permesso per depositare i propri atti”.

Detto in altre parole, per accedere al Pdp serve una sorta di lasciapassare. Un documento ufficiale per “dimostrare di essere titolato a fare il deposito, spiega Giuseppe Vaciago, penalista e partner di 42 Law Firm. Per ora, come precisa il ministero, “la richiesta di indicare l’atto abilitante è limitata alle sole nomine per procedimenti in fase di indagini preliminari”. L’obiettivo, dicono da via Arenula, è “tutelare il segreto investigativo ed al fine di evitare le cd. nomine esplorative. Non è possibile che non esista un atto abilitante, che serve anche a conoscere il numero del procedimento”.

Il portale per il deposito atti penali

I malfunzionamenti del portale

Dai racconti degli avvocati interpellati da Wired, emerge che il Pdp ha problemi procedurali e tecnologici. A cominciare dal fatto che  non dispone di un certificato https – protocollo che protegge la pagina da manipolazioni – se non dopo che si è entrati nella finestra di login. A causa di questa carenza tecnica, un attaccante informatico potrebbe dirottare l’utente su una pagina clone di quella per l’accesso, eventualmente tentando di acquisirne le informazioni personali o le stesse credenziali di accesso. E l’immagine utilizzata nel sito è una foto d’archivio, con tanto di watermark in sovrimpressione che spesso è utilizzato per indicare quando il contenuto non è stato pagato.

“Questo portale non è stato pensato per gestire il traffico a livello nazionale – chiosa Vaciago -. Così il digitale, che dovrebbe agevolare, rischia paradossalmente di creare un ritardo. Il risultato è che il Pdp va spesso in sovraccarico e questo non consente di depositare gli atti. L’ultimo episodio risale proprio allo scorso 2 marzo, quando il portale è risultato irraggiungibile per diverse ore da tutta Italia e la Dgsia si è scusata dando la colpa a “ripetute cadute di tensione sulla dorsale elettrica del fornitore nazionale del servizio elettrico, che alimenta il datacenter di Roma”. “Un’ammissione del fatto che il Pdp non dispone di comuni sistemi di protezione come i gruppi di continuità o che questi sono decisamente sottostimati?”, si chiede Michele Pietravalle, fornitore di servizi internet.

Ma proprio i disservizi costanti spingono gli avvocati a ricorrere a degli escamotage pur di poter assolvere ai loro compiti. “Dalla cancelleria ci hanno suggerito di fare un’autocertificazione per dire che il portale non funzionava e poter depositare l’atto in forma cartaceo”, raccontano Fabrizia Bussolino e Simone Giacosa, penalisti dello studio legale Leading law. E Campanelli aggiunge che “è capitato che numerosi imputati si trovassero assegnato un avvocato d’ufficio prima ancora che il legale designato avesse la possibilità di depositare la nomina sul portale”.

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